martedì 15 dicembre 2009

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"All'alba si infilava uno stick di deodorante sotto la camicia - la doccia del camionista - e guidava finchè non trovava un caffè da qualche parte. Secondo lui viaggiare da solo era come andare in analisi: si scoprivano molte cose su se stessi.
Mentre attraversava a tutta velocità la piana salata di Bonneville, giocava a "golf da macchina", zigzagando tra le corsie per far rotolare una pallina da ping-pong dentro il bicchiere di polistirolo che si era rovesciato sul sedile di fianco, spandendo quasi tutto il caffè."
Questa è l'Architettura a cui facciamo riferimento.
Un Architettura che sia inquietante testimone - non necessariamente di accusa -; un'Architettura che, dietro un paio di occhiali scuri e non vista, "fotografa" per poi ingrandirle, alcune particolari prospettive della complessità contemporanea le quali poi, originalmente montate, siano capaci di rivelare una verità intrigante, coinvolgente, stuzzicante, compromettente.
Un' Architettura che nasce dall'uso di un processo di "underwiew" (visione dettagliata di una parte), piuttosto che uno di "overview" (visione d'insieme), al fine di elaborare un modo di raccontare uguale a quello di chi facesse, per assurdo, la cronaca di un avvenimento sportivo non guardando in campo ma prendendo nota di quello che, alla fine, rimane sulle gradinate.
Un'Architettura che nasce dal silenzio, dalla riconsiderazione dei reperti, di quei paesaggi e di quegli spazi marginali su cui tanto abbiamo insistito, e caratterizzata da una precisione di scrittura - argomento per argomento - che costringa a riflettere.
Un'Architettura della civiltà mass-mediatica, la nostra, nella quale gli -ismi delle forme espressive perdono di efficacia con una velocità drammatica e, fortunatamente, senza diritto di replica, in quanto l'ambiente in cui vivono non è più propizio a coloro che sviluppano idee secondo canoni stilistici predeterminati.
Un'Architettura che sia capace di contrastare il senso comune diffuso, basato sul dominio dell'effimero e sulla fiorente industria del gossip. Impresa ardua per via del fatto che la maggior parte dei designer cresciuti negli ultimi venti anni e di quasi tutti gli studenti attuali, si sono formati attraverso idee, desideri e progetti confezionati da una cultura quasi esclusivamente governata dall'indifferenza, dal cinismo e dal rifiuto del pensiero critico libero.
Un'Architettura che dialoga con i sentimenti più profondi senza preoccuparsi di essere perfetta o "politically correct" ma preoccupandosi, invece, "solo" di essere.
Un'Architettura che esiste quando la Vita la usa, e quando la Vita non la usa viaggia...................

MP

lunedì 14 dicembre 2009

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Qualche biennale di Architettura di Venezia fa ho visto e commentato uno splendido intervento nel padiglione Canadese realizzato dal giovane Studio di Vancouver Pechet and Robb Art & Architecture (http://www.pechetandrobb.com/index.html). L'azione più fondamentale e più sorprendente del progetto è l'inserimento, all'interno del padiglione, di un gigantesco giubbotto di felpa, la cui leggibilità viene letteralmente soppiantata dalla creazione di un rivestimento interno estremamente "accattivante" per i nostri sensi.
L'installazione parte dalla nuova cultura del Design diffusa nella giovanissima e vivacissima città di Vancouver, la cui stravagante conformazione geografica costringe entro limiti non negoziabili, le attività legate all'insediamento e all'edificazione urbana.
Il carattere urbano di Vancouver è animato dalle attività legate allo svago ed al tempo libero, da una preoccupazione costante nei confronti dell'ambiente e dall'ottimismo intrinseco di una popolazione veramente molto eterogenea che vuole fare di questa nuova ultima frontiera, la propria casa.

Benchè galvanizzanti in termini di flusso di capitali e convenzioni di gusto domestico, certe speculazioni di design vengono spesso a collocarsi lungo un perimetro culturale.
La natura essenzialmente piatta dell'attuale edilizia urbana è indagata da più agili esplorazioni, connesse ai giardini, all'arredamento, alla scenografia e alle installazioni d'arte pubblica, sempre con uno sguardo critico e non di rado ironico rispetto alle fragili esperienze vissute di questo luogo.
Le realizzazioni di Pechet e Robb includono diverse installazioni in contesti pubblici che anticipano ed anche persino innescano l'invenzione di nuove pratiche sociali.
In un regno urbano senza precedenti queste installazioni possono essere interpretate come inviti temporanei, in attesa che la forza della presenza edificata sia accolta nella quotidianità della vita.

Oltre a rappresentare la cifra del lavoro di Pechet e Robb, fra routine ed improvvisazione, questo sguardo critico segna una relazione diretta tra le azioni del designer e quelle del cittadino.
Per coltivare significati personali che possiedono infinite sfumature, entrambi devono impegnarsi in una revisione provvisoria dell'ambiente in cui si trovano. La città viene letta, in questo modo, in una cornice di interessi individuali particolari, che si intersecano e si scontrano in continuazione, finendo con il disegnare la comune identità di collettività stratificate.
Con allusione alle costruzioni aborigene note con il nome di "sweatlodges" (strutture temporanee costruite a scopi di purificazione rituale e di socializzazione), il progetto SweaterLodge evoca un'altra vena di potenziale suggestione della cultura nativa: quella del trickster. Usando giochi di parole, allusioni arcane e doppi sensi, Pechet e Robb rivelano una valida strategia in grado di consentire ai valori delle minoranze un certo grado di invisibilità all'interno della cultura dominante. Grazie anche ai cambi di scala ed alla generale inclinazione a decontestualizzare ciò che può essere considerato famigliare, il lavoro di Pechet e Robb funge da stimolo tanto a livello viscerale che intellettuale ed il suo significato ultimo viene continuamente costruito e ricostruito dagli individui che vi partecipano, esprimendo in modo esemplare quella condizione di ralazionalità a cui tanto facciamo riferimento nelle nostre comunicazioni.

Il materiale, genialmente e squisitamente effimero, derivante dal riciclaggio di moltissimi contenitori di bevande in plastica, ingigantito fino a diventare il giubbotto di un titano, viene nuovamente trasformato in un confortevole interior texture che evoca un po' le scenografie di Barbarella, e ricorda, allo stesso tempo, la sostanziale parentela dell' architettura con il riparo offerto dagli abiti. La cifra della complessità e della sostanza di questo progetto è ciò che noi chiamiamo architettura.



MP

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Che cosa è l'urbanistica oggi? Come si trasforma e come si può trasformare la città contemporanea? Ma soprattutto: da che cosa dipende la qualità della Vita dei suoi abitanti, degli spazi condivisi e dei luoghi d'incontro? In sintesi, che cosa può rendere le nostre città più vivibili ed attraenti?
CONNECTION intende verificare nuovi strumenti per la trasformazione della città d'oggi: siamo alla ricerca di un'architettura e di un'urbanistica differenti, che non partano da un'astratta pianificazione a tavolino, ma siano in grado di crescere e di svilupparsi come un virus benefico, deformando ciò che già esiste, in modo imprevedibile: un'architettura ed un'urbanistica capaci di nutrirsi della vita e dell'energia presenti nella stessa urbanità.
Abbiamo più volte detto in queste pagine, che il senso dell'evoluzione della città e della sua struttura spaziale e formale, non lo vediamo come la successione nel tempo di situazioni statiche, ma piuttosto come una condizione dinamica e volatile, in grado di tenere insieme le pressioni economiche (la prima sessione di riflessioni), i bisogni e i desideri (tutte le altre) delle persone che la abitano.
Introducendo la complessità abbiamo detto che se attribuiamo forza alle connessioni e non ai nodi, riusciamo a confermare la teoria secondo la quale l'essenza della Vita sta nel modo in cui interagiscono le molecole e non nelle singole molecole. Ripensare la città contemporanea a partire dalle connessioni significa, quindi, invertire la prospettiva della centralità dell'oggetto architettonico nella trasformazione del tessuto urbano ed insieme ad esso delle concentrazioni funzionali, e al contrario puntare l'attenzione sulle relazioni sociali e sui flussi Vitali di una metropoli.

Da CONNECTION vorremmo uscissero dei progetti che interrogano la realtà della città di Modena e le visioni che ne scaturiranno non devono essere necessariamente reali o realizzabili. Dovranno lavorare prevalentemente negli "spazi marginali", in quello spazio territoriale dai contorni non ben definiti tra città e paesaggio, il più possibile lontano, temporalmente parlando, dal centro storico, dall'immagine iconica della Città.
All'interno di questo scenario ogni "regista" ha definito un sistema di regole fenomenologiche atte a identificare la complessità della realtà contemporanea. In questo modo nessuno dei progetti di architettura che verranno prodotti proporrà visioni globali o totalizzanti, quanto piuttosto, operazioni progettuali contagiose e dilaganti, che percorrano strade non ancora battute, che sfruttino e rappresentino nuovi spazi e tessuti urbani.
Un Hub di Transportation (come il polo intermodale a cui ci riferiamo) è portatore di territori senza forma, di terre di mezzo: luoghi dove quartieri di pura speculazione si alternano a vuoti urbani; e residui di paesaggio naturale interrompono densi tessuti fisici ed umani. Lì dove le relazioni sociali e spaziali sono insolite, indefinibili o semplicemente difficili da inquadrare, i progetti dovranno cogliere il carattere confuso e vitale di queste aree non per negarlo, ma per cercare di renderlo esplicito e consapevole, inventando, se necessario, nuove relazioni per nuovi spazi.
In questo senso vorremmo che CONNECTION si ponesse in alterità rispetto ai suoi precedenti storici. Se i progetti redatti fino ad ora si concentravano sul problema del disegno della città storica (o almeno di una parte di essa) proponendo visioni urbane utopiche ed elitarie (in un senso e nell'altro senza distinzioni) a partire dalla forma della città antica, CONNECTION, con gli stessi presupposti, vuole cercare di proporre un'interpretazione completamente diversa: non più legata alla fissità della città costruita, ma profondamente interessata alla trasformazione della città contemporanea e al suo rapporto con la storia e la memoria.

Cerchiamo di aprire una finestra su un tessuto urbano in costante trasformazione, e per farlo in modo significativo proviamo a catturare pochi minuti di una realtà mobile ed inafferrabile come il mercurio; una realtà, che proprio come il mercurio, si offre quale mezzo più adatto per misurare la salute della città di Modena, ed in generale della media città italiana. In brevi storie e fotogrammi di pura architettura i "registi" evidenziano patologie e potenzialità della città, mettendo in luce aspetti e fenomeni che ormai da tempo hanno sovrapposto alla città (di Modena nel nostro caso) un'altra città.
CONNECTION instaura un dialogo fra linguaggi artistici, proponendosi di svelare l'anima nascosta della città (Modena) contemporanea, non cercandola dunque nella città storica, bensì in quella città in divenire nascosta dietro ai suoi edifici; nascosta ben oltre i binari della ferrovia e della stazione delle autocorriere, disegnando ed esprimendo la nuova architettura digitalizzando i canoni della complessità.
Non è facile ma ci diverte molto provarci.


MP

martedì 8 dicembre 2009

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Buckminster Fuller. Tutti voi conoscete questo straordinario personaggio, autore di alcune delle più interessanti ricerche sullo spazio architettonico dell'ultimo secolo. Fu colui che elaborò, nel 1929, lo schema della 4D Tower - un grattacielo di metallo prefabbricato, trasportato da un dirigibile Zeppelin - e che nel dopoguerra si dedicò alla maniacale messa a punto di un guscio a cupola - il Necklace Dome - esposto per la prima volta nel 1949 nel giardino del Pentagono a Washington. Per i suoi esperimenti sulle cupole geodetiche, concepite con i materiali più diversi, Fuller si appoggiò con fiducia e decisione alle autorità militari americane, ed arrivò a progettare e realizzare tutta una serie di varianti da usare nell'ambito del sistema di difesa nazionale contro un eventuale attacco aereo russo, negli anni più aspri della guerra fredda tra navicelle targate USA e Sputnik comunisti. Nel 1958 Fuller aveva reso noto il suo progetto di sparare sulla Luna delle strutture "tensegrali" - un neologismo che combinava "tensione" e "integrità" -
o di usarle come satelliti per la navigazione nel Cosmo.
Bene, quasi ci siamo. Tutto questo sta per avere una materializzazione. La ricerca "visionaria" di Buckminster Fuller sta per essere tradotta in realtà architettonica tangibile ed usufruibile.
L'Agenzia Spaziale Europea ha infatti commissionato allo studio di Norman Foster il progetto di studiare le applicazioni al mondo delle costruzioni dei materiali raccolti nello spazio dalle missioni Apollo e Gemini in avanti e di considerare la possibilità di costruire sul nostro satellite strutture permanenti che consentano agli astronauti di trasformarsi in veri e propri esploratori dei misteri del mondo lunare, eseguendo per lunghi periodi esperimenti sulla vita nello spazio.
E' ufficialmente l'apertura di un'Era e non credo che neanche la più megalomane delle fantasie professionali l'avrebbe mai neppure immaginata. Eccetto quella di Buckminster Fuller.
Cosa c'entra l'Architettura "stellare" con CONNECTION? Molto. In quanto sempre il barone rampante dell'High Tech è l'autore del primo "spazio-porto" del Mondo - che è la naturale evoluzione dell'aero-porto - il Virgin Galactic di Rowell (nel New Mexico, dove i fedelissimi giurano sia che sia caduto il primo UFO nel 1947), ideato e finanziato da Richard Branson (Virgin group) che ha investito 250 milioni di euro per sviluppare un nuovo sistema di lancio del fantascentifico Spaceship Two, l'ultima frontiera nel campo del volo e la prima porta verso il nuovo turismo interstellare. Il progetto di Foster è una gigantesca "razza" adagiata sul fianco di una collina ed è il punto di svolta di una tecnologia dove industria satellitare e industria delle costruzioni si troveranno alleate in una nuova fase della complessa, ma affascinante, globalizzazione del pianeta. L'attività dello Spazio-Porto di Rowell è prevista che inizi nel vicinissimo 2010, anno in cui si dovrebbero concludere i lavori di cantiere. Per quanto riguarda gli step di avvicinamento al primo volo turistico oltre la linea di Karman (sono i 100 chilometri di quota internazionalmente riconosciuti come la frontiera ufficiale dello spazio) la "White Knight 2", la navicella madre che trasporta la"Space Ship Two" è impegnata in voli di prova. L'esemplare ha in programma il terzo volo test prossimamente con l'obiettivo di raggiungere la quota di 20 mila piedi. Per quanto riguarda la "Space Ship Two" ossia la navicella con motore a reazione che, staccandosi dall’aereo madre, porterà a 110 chilometri sei passeggeri paganti per volo, l’implementazione è prevista in autunno con il primo volo prospettato per il 2010. La White Knight 2, oltre ad essere l’aereo madre del sistema, è una piattaforma per ricerche di alta quota con due cabine in grado di ospitare personale e apparecchiature. “L’obiettivo è essere commercialmente redditizi e spingerci oltre il suborbitale, compresi i voli ipersonici per passeggeri che consentiranno di collegare, ad esempio, Londra e Sydney in 2 ore” afferma la direttrice vendite di Virgin Galactic.
Londra / Sydney in due ore.
Questa è la vera notizia che ci interessa, come capirete facilmente.
Certo, anche pensare di poter andare a lavorare sulla Luna è una prospettiva interessante, ma è dei "tempi lenti" dei flussi che ci stiamo interessando in particolare con questa comunicazione, e quei "tempi lenti" stanno subendo un'evoluzione impensabile solo venti anni fa. Anche nel Bel Paese se ne potranno sentire le conseguenze per via dell'Alta Velocità che permette di andare dalla Capitale economica alla Capitale istituzionale in meno di tre ore, e dalla nostra provincialissima città a Milano in meno di una, con innumerevoli vantaggi per chi, come noi, ha frequente necessità di tavoli di lavoro globalizzati che si possono trovare solo in certe parti del Paese. E tutto questo concorre a creare quella geografia "intercittà" a cui facevamo riferimento alcune comunicazioni fa. Una geografia nella quale dovranno coesistere condizioni di percezione della realtà secondo "tempi lenti" ma anche secondo "tempi veloci"; una geografia nella quale il concetto di "genius loci" avrà necessariamente bisogno di essere se non proprio abbandonato (cosa che auspico succeda presto) almeno oggetto di una rilettura profonda, tale cioè da permettere di capire che quei "geni benefici" che dovrebbero, secondo le più diffuse teorie accademiche, animare i luoghi non hanno nè origine naturale (quasi scaturissero dal suolo) nè soprannaturale (come se discendessero dal cielo) ma - ebbene sì - esclusivamente culturale.
Quei "geni" sono presenti in quei luoghi perchè abitano il nostro sguardo e abitano il nostro sguardo perchè provengono dall'arte. Lo spirito che aleggia e che "ispira" tali siti è semplicemente quello dell'arte che, tramite il nostro sguardo, artificia il paese in paesaggio. Ma se non capiamo bene questo corriamo il rischio di non sapere dare un giudizio di valore a tutti quei luoghi che concorreranno nel prossimo futuro (anche quello veramente prossimo del Workshop) alla definizione del paesaggio che farà da scena alla nostra Vita.
Nel nostro caso non abbiamo da valutare l'impatto su un tessuto urbano ed il suo paesaggio di uno Spazio-porto, ma "solamente" di un polo intermodale. Le conseguenze sono, evidentemente, molto differenti, Ma nella definizione delle equazioni del sistema che utilizzerete - con le vostre formule fenomenologiche - per risolvere lo specifico stato di complessità davanti al quale ci troviamo con questo progetto x Modena, sarà indispensabile dare una valutazione critica della cultura alla quale si fa riferimento e si attinge per le scelte progettuali. A questo proposito vi suggeriamo una domanda alla quale sarà obbligatorio rispondere se vorremo offrire ai nostri interlocutori proposte di qualità :
disponiamo o no dei modelli che ci consentono di cogliere ciò che abbiamo sotto gli occhi?


MP

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(non sapere vs. sapere - ma solo per un pubblico esperto -)

Agli inizi degli anni settanta (ed anche dopo per un bel po'.......forse anche adesso....) si studiava Aldo Rossi.
Era un'epoca di convinzioni al tramonto. La maggior parte d_ei progettisti in attività durante quel periodo non si rendeva conto di essere dinnanzi alla fine del pensiero utopistico moderno e, basilarmente, alla fine della propria influenza sulla pianificazione urbanistica. La comparsa di due libri di fondamentale valore - Architettura della Città di Rossi e Complexity and Contradiction in Architecture di Venturi e Scott Brown - creò un'ingannevole certezza sul modo in cui si sarebbe dovuta percepire e pianificare la città contemporanea. Questi testi segnarono l'inizio della cultura postmoderna, che plasmò il pensiero di un'intera generazione di progettisti. Erano testi affascinanti. Rossi, Venturi e Scott Brown fecero credere che loro sapevano ciò che era o doveva essere la città. Secondo Rossi le città erano basate sulla permanenza e su modelli tipologici che andavano ripetuti. Egli consigliava di rifarsi ai modelli storici o di ricrearli in altre collocazioni, in un modo del tutto analogo a ciò che facevano gli antichi romani quando costruivano le loro città nei vari angoli dell'Impero. Venturi e Scott Brown scoprirono la qualità informale della città americana, soprattutto della "main street", la "strada principale", e sottolinearono l'importanza dell'iconografia in architettura. Osservarono e descrissero città e le presentarono come modelli. Tutto ciò esercitò una grande influenza su un modo di pensare il design urbano che ebbe grande successo di pubblico. Ed ancora ha proseliti.

Tuttavia, mentre Rossi, Venturi e Scott Brown immaginavano come avrebbe dovuto essere la città, a me - forse per reazione - ed a altri più prestigiosi di me, apparve chiaro che bisognasse vivere senza proclami. Dico "forse per reazione" ma in realtà fu proprio per quello: non mi sono mai piaciuti i proclami.
Loro presentavano modelli di città ed io mi rendevo conto che bisognava immaginare senza modelli ed iniziare lo sviluppo dell'idea con un'assenza di teoria come mai era accaduto in precedenza. Abbracciare la libertà di questa incertezza l'ho sempre vista come una opportunità unica. Ero affascinato dal puro e semplice fatto della città e cercavo di affrontarlo con tutta l'apertura di cui ero capace, con una specie di ingenuità pragmatica. Questo più o meno ai tempi delle "sezioni di Londra" che ho citato in precedenza, sviluppate in una summer session all'AA, nelle quali si cercava di trovare il dna della città per iniziare a modificarlo geneticamente al fine di creare qualche mostro simpatico e alla mano. Meno pesante....
Piuttosto che sul sapere (che comunque consiglio a tutti come background) o sul credere (che in senso fondamentalista invece non consiglio a nessuno nel mondo dell'architettura), l'approccio che avevamo si basava sul non sapere ciò su cui fare affidamento. A distanza di anni abbiamo scoperto che avevamo intuito correttamente: l'architettura contemporanea di qualità ( quella che non si preoccupa troppo del giudizio del tempo) oggi utilizza questo approccio, naturalmente in forme coniugate. Sviluppa soluzioni originali della complessità caso per caso, ben lungi dall'utilizzare schemi o modelli precostituiti, essenzialmente per l'incapacità di questi di soddisfare compiutamente i programmi con i quali abbiamo a che fare al giorno d'oggi.
Ed è essenzialmente questo quello che cerchiamo di farvi comprendere e metabolizzare.

MP

venerdì 4 dicembre 2009

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(sulla recitazione)


Quando penso al rapporto tra città ed Architettura, penso alla democrazia. L'Architettura partecipa a quella modificazione di atteggiamento che è la rappresentazione della comunità.
Riusciamo a cogliere bene il concetto quando c'è un'assenza. Quando i Budda in Afghanistan o le Twin Towers a New York vengono distrutti, oppure la Golden Dome di Samarra in Iraq non esiste più, in quel momento c'è un'assenza, un senso di mancanza, di vuoto e gli eventi in cui l'Architettura non c'è più ci fanno comprendere meglio la sua importanza. Il vuoto dell'assenza dimostra che l'Architettura partecipa al processo della democrazia.
Anche quando sono bruttissimi, non funzionano, sono esteticamente orribili, gli edifici SONO la rappresentazione della società a cui si riferiscono. Sempre.
L'Architettura può avere un effetto sulla società, anzi deve averlo; perchè quel che facciamo noi progettisti di architettura è cercare di costruire uno scenario in cui gli uomini siano i soli attori.
L'Architettura non può essere indipendente dagli uomini, in quanto se, per pura astrazione, immaginassimo una città senza gli uomini, o gli uomini senza un'Architettura di città, verificheremmo che ci sarebbe qualcosa che non funziona, si vedrebbe un'assenza. Perciò gli esseri umani sono obbligati a vivere insieme alla loro Architettura.
Gli architetti disegnano lo scenario in cui gli attori recitano e se questo scenario non permette l'entrata in scena, l'uscita o l'evento culminante, tutto crolla. Lo scenario può produrre poesia ma anche disperazione, in quanto può originare qualunque cosa. Ma non risolve il problema della recita. Ora ve lo spiego.
E' evidente, in questa veloce disanima, il rapporto di simultaneità (lo stesso del contrasto cromatico) tra cultura e Architettura. Vi dico questo in quanto succedono cose strane a fidarsi ciecamente dell'equazione scritta sopra.
Ad esempio.
Se dici ad un abitante della banlieue parigina che demolisci gli edifici perchè sono brutti, spesso ti risponderà che sì, è d'accordo, sono brutti, ma attenzione! che non ti azzardi a costruire poi torri o stecche o corti a patio ecc....
..............................? Già............
Gli abitanti sono d'accordo nel volere le scale più larghe, ma senza cambiarle. Allora tu pensi: " Come no? Sto posto è brutto che fa schifo, ci vivete male, avete bruciato le porte, gli ascensori non funzionano, i disimpegni sono un disastro e pure i pianerottoli sono sbagliati....e allora perchè lo volete ancora? E molti di loro ti rispondono: " Perchè io qui ci sono nato". Nello scenario che è stato loro proposto, hanno recitato la loro commedia umana, anche se nel posto peggiore. Questo troppo diffuso tipo di risposta (nelle banlieue è solo più grottesco) deve far riflettere.
Ma non tanto sulla scena, bensì sulla recita.
Si crea, evidentemente, un problema di sensibilità, in quanto tu sai che devi eliminare uno scenario per non protrarre non solo i luoghi della disperazione ma anche per adeguare quelli della Vita , ma nello stesso tempo devi trovare il modo affinchè avvenga un passaggio. Non esiste edilizia, edificio che si possa cancellare in un istante. Noi sappiamo che in mezzo mondo ci sono scenari da rivedere. Però il problema del "passaggio di stato" è estremamente delicato, in quanto si tratta della commedia umana ed i suoi attori spesso non sono preparati a discuterne.
Bruno Zevi disse, una volta, che non era abbastanza essere un grande progettista di Architettura. C'era (e c'è) una cosa in più nell'essere un buon architetto: l'interesse per la complessità della società. La necessità, aggiungo io, di riuscire a cogliere le sottili logiche che possono permettere la convivenza di tutti gli attori senza che si uccidano tra loro, o si insultino o siano disinteressati al bene comune. Ma il bello di tutto ciò è che spesso questo è solamente impossibile. Ed è solo un problema di educazione alla cultura ed al saperla riconoscere. Niente di più. Educazione.
In una società democratica ogni attore ha la libertà di esprimere il suo pensiero. Anche se non sa perchè lo esprime nè cosa lo motiva. E' un problema che anche i greci (gli inventori di questa bizzarra cosa) avevano notato e per il quale avevano elaborato qualche "mossa difensiva", essenzialmente legata al concetto di "saggio" e "saggezza", (concetto che nel tempo si è un po' deteriorato) ed affidando grande importanza agli educatori (anche qui nei tempi il concetto si è parecchio deteriorato invero). Ma tant'è.
Nel corso dell'ultimo secolo l'attenzione si è concentrata sul soggetto sbagliato. E' la recita che definisce l'architettura e la qualità della scena, non il contrario. Ed il Guggenheim di Bilbao è diventato un organo vitale per quella città non per come è fatto ma per cosa rappresenta, e la genialità che lo sottende non è tanto nella plasticità delle forme, quanto nella capacità di dare un volto ai desideri ed alle aspettative di una cultura. Ed il fatto che "esportato" tout court non ha più funzionato nello stesso modo ne è la testimonianza tangibile.
La recita. OK, direte voi, ma fin troppe volte riconosciamo gravi lacune nella grammatica del testo della recita e nessuno accetta di discuterle in quanto "...è sempre stato così" o " ......è così che mi ricordo si è sempre fatto". Senza contare che la maggioranza della gente ha faticato "sette camicie" per imparare a recitare quel ruolo e della sua incapacità ne ha fatto un vanto. (e nel Bel Paese questa è una prassi drammaticamente molto diffusa......). E' questa la vostra osservazione?
Bene.
Perchè è esatta. Questa è la realtà di cui stiamo parlando. Alla fisiologica complessità dettata dall'evoluzione bio e psico-logica della Vita, che procede imperterrita disinteressandosi della banalità (più o meno drammatica) della quotidianità, avendo come metro ritmico un tempo lunghissimo a cui si accompagnano delle sonorità ai limiti delle frequenze udibili, si somma una complessità altra, spesso ingiustificatamente rumorosissima e falotica, che utilizza troppe frequenze bassissime ed altissime per illuminarsi e che rende il compito di interpretare correttamente la reale qualità che ci circonda molto difficile e facilmente vittima di clamorose sviste.
Ed è proprio da quelle sviste che poi sorgono scenografie per la recita che risultano banali e di nessuna efficacia.
A volte, però, la grammatica è corretta. Non è la prassi, questo è vero, ma a volte la costruzione delle frasi, il loro modo di articolarsi ed il significato a cui alludono, sono di qualità. Significa che nel divertentissimo caos voluto dalla Vita è stato colto un momento di verità, ed è stata scritta una storia interessante. E la recita che ne consegue dipende allora solo dalla bontà degliattori, ed in questo caso sarà molto più facile riconoscere chi sa recitare dai ciarlatani e tutto sarà, più o meno, in equilibrio per un po'.

Per cui, per cortesia, almeno a CONNECTION vediamo di utilizzare una piéce teatrale di un certo spessore.....................

MP

_regole fenomenologiche pt2

Gentili partecipanti,

Sono Stefano Ceccotto, Senior Designer di SOM e vi presentero’ la lecture Connection.

Leggo I post di Marco sul workshop e sono molto interessato alla struttura informale su cui state lavorando.

Vi do’ subito alcuni riferimenti che possono esservi utili.

Il primo e’ il programma del corso di Digital Modeling for Urban Design Brian McGrath, che e’ stato mio professore a Columbia. Leggete il framework, vi descrive alcuni approcci metodologici alla modellazione ed alla costruzione di una storia – lo storyboard di cui parla Marco. Vi portero’ alcuni esempi di lavori fatti con Brian alla Columbia, cinematica digitale piu’ che altro. Si lavorava sulla costruzione di un momento topico, da sviluppare in maniera dinamica – giusto per ricordare che urban design e’ una disciplina a 4 dimensioni.

Eccovi il sito del DMUD a Columbia – guardate anche I lavori degli studenti dell’anno scorso.

http://www.arch.columbia.edu/workpage/work/courses/visual-studies/digital-modeling-urban-design-0

Potete anche leggervi “Deleuze on Cinema”, di Ronald Boque – ammetto che non ho idea di chi lo pubblica e traduce in italiano- un testo secondo me fondamentale per chi si approccia all’immagine. Se volete comprarlo su Amazon ecco il link:

http://www.amazon.com/gp/product/0415966043/ref=pd_lpo_k2_dp_sr_1/187-6609383-1219925?pf_rd_m=ATVPDKIKX0DER&pf_rd_s=lpo-top-stripe-1&pf_rd_r=1QBB60TE2ZXNMWG6KBVC&pf_rd_t=201&pf_rd_p=486539851&pf_rd_i=0816614008

C’e’ poi un altro sito che potete consultare. Si tratta sempre di un tipo di linguaggio dinamico, ma questa volta non cinematico – e piu’ facile da leggere in termini di “architettura”. Sempre di Brian McGrath. Questo e’ un tipico esempio di presentazione costruita su uno storyboard interattivo. Cioe’: a seconda delle vostre scelte, ottenete informazioni diverse.

http://www.skyscraper.org/timeformations/intro.html

Buon divertimento.

Ceccotto