martedì 8 dicembre 2009

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(non sapere vs. sapere - ma solo per un pubblico esperto -)

Agli inizi degli anni settanta (ed anche dopo per un bel po'.......forse anche adesso....) si studiava Aldo Rossi.
Era un'epoca di convinzioni al tramonto. La maggior parte d_ei progettisti in attività durante quel periodo non si rendeva conto di essere dinnanzi alla fine del pensiero utopistico moderno e, basilarmente, alla fine della propria influenza sulla pianificazione urbanistica. La comparsa di due libri di fondamentale valore - Architettura della Città di Rossi e Complexity and Contradiction in Architecture di Venturi e Scott Brown - creò un'ingannevole certezza sul modo in cui si sarebbe dovuta percepire e pianificare la città contemporanea. Questi testi segnarono l'inizio della cultura postmoderna, che plasmò il pensiero di un'intera generazione di progettisti. Erano testi affascinanti. Rossi, Venturi e Scott Brown fecero credere che loro sapevano ciò che era o doveva essere la città. Secondo Rossi le città erano basate sulla permanenza e su modelli tipologici che andavano ripetuti. Egli consigliava di rifarsi ai modelli storici o di ricrearli in altre collocazioni, in un modo del tutto analogo a ciò che facevano gli antichi romani quando costruivano le loro città nei vari angoli dell'Impero. Venturi e Scott Brown scoprirono la qualità informale della città americana, soprattutto della "main street", la "strada principale", e sottolinearono l'importanza dell'iconografia in architettura. Osservarono e descrissero città e le presentarono come modelli. Tutto ciò esercitò una grande influenza su un modo di pensare il design urbano che ebbe grande successo di pubblico. Ed ancora ha proseliti.

Tuttavia, mentre Rossi, Venturi e Scott Brown immaginavano come avrebbe dovuto essere la città, a me - forse per reazione - ed a altri più prestigiosi di me, apparve chiaro che bisognasse vivere senza proclami. Dico "forse per reazione" ma in realtà fu proprio per quello: non mi sono mai piaciuti i proclami.
Loro presentavano modelli di città ed io mi rendevo conto che bisognava immaginare senza modelli ed iniziare lo sviluppo dell'idea con un'assenza di teoria come mai era accaduto in precedenza. Abbracciare la libertà di questa incertezza l'ho sempre vista come una opportunità unica. Ero affascinato dal puro e semplice fatto della città e cercavo di affrontarlo con tutta l'apertura di cui ero capace, con una specie di ingenuità pragmatica. Questo più o meno ai tempi delle "sezioni di Londra" che ho citato in precedenza, sviluppate in una summer session all'AA, nelle quali si cercava di trovare il dna della città per iniziare a modificarlo geneticamente al fine di creare qualche mostro simpatico e alla mano. Meno pesante....
Piuttosto che sul sapere (che comunque consiglio a tutti come background) o sul credere (che in senso fondamentalista invece non consiglio a nessuno nel mondo dell'architettura), l'approccio che avevamo si basava sul non sapere ciò su cui fare affidamento. A distanza di anni abbiamo scoperto che avevamo intuito correttamente: l'architettura contemporanea di qualità ( quella che non si preoccupa troppo del giudizio del tempo) oggi utilizza questo approccio, naturalmente in forme coniugate. Sviluppa soluzioni originali della complessità caso per caso, ben lungi dall'utilizzare schemi o modelli precostituiti, essenzialmente per l'incapacità di questi di soddisfare compiutamente i programmi con i quali abbiamo a che fare al giorno d'oggi.
Ed è essenzialmente questo quello che cerchiamo di farvi comprendere e metabolizzare.

MP

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